Domenica 8 settembre 2013
CAI, centocinquant'anni sempre in vetta, appuntamento l' 8 settembre per festeggiare il compleanno del Club Alpino
Che sia agosto oppure ottobre ha poca importanza. Quel che conta è che il Cai compie 150 anni, un traguardo che non è certo un battito di ciglia.
Agosto, come il mese del 1863 della salita al Monviso da parte dei suoi fondatori, tra cui Quintino Sella, allora ministro del Regno; ottobre come il mese della costituzione ufficiale con lo statuto. Sulle cime da 150 anni, per una storia che non è facile da raccontare. Una storia che in Veneto è fatta di figure storiche, sezioni centenarie (quella di Agordo, per dire, risale al 1868 ed è la quarta per anzianità in Italia), ma anche rapporti istituzionali, divulgazione scientifica, difesa del territorio. «Si dice montagna e pensi alle Dolomiti — sorride Francesco Carrer, 58 anni, presidente del Cai Veneto dal mese di aprile — con tutto ciò che rappresentano. E con quello che anche il Cai rappresenta, una storia lunga e appassionante che parte dall’escursionismo dei "pionieri" fino ai giorni nostri.
E anche ai valori che cerchiamo di portare avanti e di condividere. Valori che possono esplicarsi anche in una maggior consapevolezza dell’importanza del nostro ambiente. E quindi anche della necessità di tutelarlo nel migliore dei modi. Noi in Veneto — continua Carrer con giustificato orgoglio—lo facciamo da sempre: basti solo pensare al primo convegno triveneto sulla montagna voluto da Antonio Berti, che fu anche il primo a capire, in tempi non sospetti, l’importanza di allacciare l’attività del Cai a quella istituzionale».
Attualmente il Cai Veneto gestisce tramite le sue 64 sezioni ben 43 rifugi alpini, oltre a numerosi bivacchi. I soci sono oltre 53mila e ci sono oltre cinquemila chilometri di sentieri — tra semplici escursionistici e vie ferrate —che sono oggetto di manutenzione costante, dalla segnaletica fino alla sicurezza. «Il tutto su base volontaria — ricorda Carrer — perché questo è lo spirito che sta alla base dell’attività. Convegni, corsi, scuole specialistiche, tutto si basa sulla voglia di "darsi" dei soci. E io sono convinto che questo spirito, con il suo senso antico di vicinanza e di solidarietà, sia anche la radice più vera e positiva dell’essere veneti». Volontariato che riguarda anche l’attività del Soccorso alpino, emanazione operativa del Club alpino italiano, che interviene con i suoi specialisti in tutti i casi di incidente in montagna, da quelli più banali fino a quelli che impongono la presenza dell’elisoccorso. «Lavoriamomoltissimo sul tema della sicurezza — ricorda Carrer — perché l’avvicinarsi alla montagna deve essere fatto anche di consapevolezza del rischio. Da un turismo riservato, fino agli anni ’50, ad un’élite socio- economica, siamo passati ad un turismo di massa e questo sicuramente è un aspetto positivo, per la società e anche per i riflessi che questo ha portato all’economia montana. Ma un più alto numero di persone significa anche un rischio più alto di incidenti. E’ un problema anche di educazione e, in questo, credo che il Cai abbia una sua positività di ruolo che è riconosciuta».
L’8 settembre il Cai Veneto celebrerà il suo compleanno con la scalata contemporanea di 150 cime. Un appuntamento aperto a tutti i soci, anche a chi non avrà la possibilità di affrontare una delle vie prescelte. «Dopo 150 anni siamo ancora qui a coltivare l’amore per la montagna—dice Carrer— e le sue bellezze. Ma ci vuole una riflessione di fondo su quello che è stato, giustamente, considerato patrimonio dell’Unesco. Lo sfruttamento turistico della montagna ha portato benefici, sicuramente. Ma ci vuole anche chi protegga e mantenga l’habitat; che ci lavori, che sfalci, che conservi i boschi. Lo spopolamento progressivo, la sparizione della figura del contadino di montagna, non sono certo segnali positivi. Ritengo che il Cai debba farsi promotore anche di un dibattito su questo e sulla montagna di oggi e domani ». Il Cai compie 150 anni, attraverso tre secoli puntando sempre lassù, dove tra silenzio e fatica è più facile fare i conti con se stessi.
Daniele Rea
dal Corriere del Veneto
Da Forcella Cibiana, si imbocca la strada sterrata sulla sinistra di una cappelletta (sentiero numero 481, quota 1530 metri) e si supera un bar-ristorante. Occorre seguire le indicazioni per Forcella Bella ma alcuni cartelli danno chiare indicazioni sulla direzione da seguire per raggiungere la forcella.
La strada sterrata sale nel bosco in modo regolare, e la si percorre fino al bivio con il sentiero numero 483, anche questo indicato chiaramente con cartelli.Qui si lascia la strada sterrata per imboccare il sentiero 483, che sale in maniera più decisa ma senza strappi eccessivamente ripidi, fino a raggiungere uno spiazzo (Pian d’Angias, quota 1847 metri), dal quale partono i sentieri 485 e 486. Si prosegue a sinistra, mantenendosi sempre sul sentiero 483 (direzione Forcella Bella) che, ora in leggera discesa, porta finalmente fuori dal bosco sotto la cima dello Sfornioi Nord.
Qui si apre un bel panorama che consente di ammirare l’Antelao e la valle dal lato Cadorino, con in basso il paese di Cibiana e, sulla destra, il caratteristico profilo a dente di squalo del Sassolungo.
Il sentiero prosegue in salita compiendo una lunga traversata, prima attraverso i mughi e poi lungo un ghiaione, puntando a un’evidente forcella a sinistra della Torre Campestrin. E’ un tratto molto suggestivo sotto le incombenti pareti degli Sfornioi, prestare attenzione nell’attraversamento dei canaloni che ogni tanto interrompono la traccia.
Raggiunta la forcella, il sentiero continua in salita a sinistra (c’è una indicazione un po’ sbiadita su un masso) fino a raggiungere la Forcella Bella (quota 2112 metri).
Anche questo è un punto panoramico notevole, con una splendida vista del Pelmo, che da qui si mostra in tutta la sua imponenza, rendendo evidente il motivo per cui lo chiamano “Caregón del Padreterno” (il Trono di Dio).
Dalla forcella occorre ora scendere sul ripido versante opposto per circa cinquanta metri di dislivello (…che diventeranno molto scomodi da risalire al ritorno…) facendo attenzione a non superare una traccia che si stacca sulla sinistra, contrassegnata da un ometto di sassi e un piccolo larice.
La traccia non è segnata sulla carta ma è sempre ben evidente e traversa a sinistra, prima in piano e poi in leggera salita sotto alle pareti (qui è il caso di indossare il caschetto), mantenendosi alta sopra l’ampio circo glaciale del Campestrin. Infine si risale un ripido ghiaione puntando decisamente a una forcella erbosa a ridosso della parete ovest del Sassolungo, da dove parte la via di salita vera e propria (quota 2195 metri).
Questa è interamente contrassegnata da bolli rossi e ometti di sassi e si svolge attraverso un sistema di cenge, camini e brevi salti di roccia, tutti abilmente sfruttati dall’apritore per raggiungere la cima mantenendo le difficoltà sempre contenute fra il I e il II grado.
Il livello di esposizione non è mai eccessivamente alto, tuttavia c’è più di un punto (fra cui, ad esempio, la cengia iniziale) dove le conseguenze di una scivolata lasciano poco spazio all’immaginazione, per cui occorre sempre prestare la massima attenzione e mantenere la concentrazione.
Inoltre la via da seguire non è ovvia a prima vista, in quanto la parete presenta diverse possibilità di salita alternative. E’ necessario quindi prestare molta attenzione ai segni rossi e agli ometti, altrimenti si corre il rischio di perdersi e trovarsi poi in difficoltà.
Questo vale soprattutto in discesa, essendo i segnavia assai più difficili da individuare quando si guarda dall’alto.
Dalla forcella si inizia con un breve salto roccioso di I grado che porta a una placca bianca appoggiata da superare in aderenza fino a un larga cengia, da percorrere in salita fino a girare uno spigolo. La cengia è a picco sulla parete e ha il fondo roccioso con qualche ghiaia. Siamo sotto la “Sentinella del Sassolungo”, una curiosa formazione rocciosa che sembra essere stata messa lì apposta per fare la guardia alla parete.
Superata la cengia, la via aggira la “Sentinella” tramite un camino con qualche metro di II grado da risalire in spaccata e qualche breve salto roccioso di I-II grado. Ci si infila quindi in un canale e finalmente ecco “l’antro”, il passaggio chiave della via.
Si tratta di una vera e propria grotta, formata da sassi incastrati, con un buco di uscita da raggiungere con una arrampicata in spaccata per circa tre metri di II grado.
In corrispondenza del buco di uscita si trova anche un bel cordone che può risultare utile per una eventuale sicura.
Lasciato “l’antro” alle spalle, rimangono ancora da superare qualche saltino di roccia di I grado e una breve traversata su uno stretto ed esposto cornicione, tuttavia ben appigliato e non difficile (anche qui I-II grado).
Si arriva infine a un valloncello di ghiaie ed erba dove appare alla vista la non lontana croce di vetta.
Si risale per traccia sulla destra del valloncello fino a raggiungere la larga cresta dorsale e da qui in breve si arriva alla croce di vetta (quota 2413 metri).
L’avventura comunque non è finita, anzi, manca proprio la parte più difficile, la discesa.
Come detto, la discesa è difficoltosa come la salita, sia nel ripercorrere i passaggi su roccia sia nell’individuare i bolli rossi.
Raggiunta la cengia e superate le placche bianche, si è in breve alla forcella alla base della parete.
Il rientro è lungo ma piacevole, eccetto forse quei cinquanta metri da risalire per raggiungere nuovamente Forcella Bella.